24 ore. 717,8 km. 388 giri completati. 0 ore dormite. 0 pasti decenti. 3 minuti di balli. 8 donne felici. Sono i numeri della Castelli 24h del 7 giugno 2019 del team femminile Cinelli Smith, sponsorizzato da Sportful. Team di cui non sapevo di far parte fino al martedì prima della gara..
Quel martedì in cui arriva quella telefonata da un numero sconosciuto: “Ciao Caterina sono Eleonora… hai voglia di fare una pazzia?”
Secondo voi quante volte nella mia vita ho detto di no ad una pazzia?
E allora via, impacchettiamo tutto, prepariamoci al peggio con giacche, manicotti, guanti anche se sembra che a Feltre farà un gran caldo. La bici è stata revisionata in vista del mezzo di Rapperswil di settimana scorsa (o cribbio ma io ho fatto un mezzo la settimana scorsa… mi reggeranno le gambe) e son pronta a partire.

Sembra una gita di classe. In auto con Beatrice si accavallano storie di ciclismo e di lavoro, di incastri malefici per poter salire sulle amate due ruote anche quando si lavora fino alle 10 di sera, le levatacce, le pedalate di notte e quelle alba, i sorrisi e i bocconi amari, la vita. E poi ancora l’acqua e il freddo patiti quest’anno, le conoscenze condivise, le origini comuni, quella prateria tra la via Emilia e il West che porta con sé tante epiche narrazioni di ciclisti mascherati.
Ma è già tempo di Feltre e di nuovi incontri. Volti e voci nuovi… Anna e poi Eleonora, Rachele, Arianna e Liliana. E Alessandro, colui che deciderà di noi, che ci detterà i tempi di questa gara che appare infinita.

Ho il respiro corto. Erano più di 20 anni che non mi trovavo a gestire una competizione sportiva all’interno di una squadra. Il triathlon mi ha abituata alla solitudine. Certo nella triplice c’è la condivisione di squadra del prima e del dopo, talvolta qualche istante in gara con un sorriso, un incitamento, poche parole sorridenti, ma l’obiettivo rimane personale e sei tu, solo tu, responsabile dei tuoi successi e fallimenti. Qui, invece, si lavora per un obiettivo comune e improvvisamente mi rendo conto di essere impreparata.
Fisicamente… certo (e chi può preparare una gara così in 4 giorni), ma soprattutto psicologicamente. Che equilibri si creano in una squadra di 8 donne sconosciute che condivideranno non solo lo spazio di gara, ma anche due letti matrimoniali in 8?

L’ansia si spezza tutta in un’istante, quando la gara parte e improvvisamente tocca a me. È calata la notte. Ho provato il percorso una volta sola. So che devo fare attenzione alle insidie del pavé, prendere la salita senza perdere il fiato e il passo, fare attenzione alla curva a sinistra, così secca che ci sono i materassi di protezione, e spingere come una pazza sul piano dove qualunque trenino è una manna dal cielo.
Aspetto Beatrice. Devo scorgere la nostra maglia, il suo braccio alzato all’ultimo giro e poi la sua pedalata da lontano. Eccola. Urla il mio nome mentre passa la finish line, è il momento in cui posso muovermi dalla zona cambio. Tocca a me. Comincia l’apnea.

Mi rilasso solo dopo un paio di giri e comincio a godermi gli istanti.
La mia bicicletta, la velocità, l’aria in faccia, la fatica dei muscoli che si tendono in salita, il cuore che accelera, un po’ per l’emozione, un po’ per lo sforzo.

E in un’istante è finita. Sono io a dover alzare il braccio, io ad urlare il nome di Arianna, io ad uscire stanca e coperta di sudore nonostante sia quasi l’una di notte.

Ed è così che si delineano queste 24 ore, turno dopo turno, con gli sguardi di scambio sempre più complici, le urla di incitamento sempre più alte, scarpe da bici sfilate, scarpe da corsa infilate (di chi sono queste? Le prendo per andare a bere un caffè), manicotti nell’aria frizzante del mattino, magliette sbottonate nel caldo impietoso delle 2 del pomeriggio. Buttarsi sul letto in albergo con un orecchio al telefono nel caso in cui cambiassero i turni.

Arriva anche il momento del panico con Eleonora che cade a causa di una pedivella che si stacca. Anna è pronta a partire e a sostituirla, ma ci prende la paura dentro. Eppure come i piloti rientriamo in pista il prima possibile perché l’adrenalina della gara scacci il terrore. Eleonora è più incavolata che ammaccata (anche se non è proprio indenne) e il sollievo è una sensazione fisica tangibile.

Le ore del pomeriggio si allungano, ormai siamo stanche, i muscoli sono sempre più tesi, ma non cediamo più nemmeno un istante. Rimaniamo unite sul bordo dell’anello, incitiamo le compagne che corrono e urliamo ai “solo rider”, i veri faticatori di questa gara. Quando l’imbrunire arriva, e con lui l’ultimo turno mio, penso che quegli ultimi giri devo assaporarli fino al midollo, prendere fiato e dare tutto.

Quando parto ci sono sorrisi e lacrime sul mio volto, Michele e Angel, amici venuti qui per gareggiare, che urlano e si sbracciano per incitarmi, riesco a scambiare ancora due parole con Federico che sta vincendo la gara dei solo, lancio uno sguardo a Arianna che è pronta in zona cambio e alzo il braccio.

È il momento. Ultimo giro. Ultima salita. Ultima curva a gomito. La bici che vibra, il dolore alla mano dove il manubrio ha portato via i primi strati di pelle per le irregolarità del pavé, l’arrivo.

E dopo l’ultimo turno di Eleonora scoppia la gioia, ci sono solo le grida di gioia, le foto abbracciate e un ballo scatenato.


La domanda che ho in testa quando finalmente tocco un letto dopo la doccia è: quando lo rifacciamo?

Ci credi che mi sono commossa? Deve essere stato bellissimo!
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Lo è stato, davvero. Una riscoperta della solidarietà e dell’amicizia al femminile che davvero mi mancava
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