Inutile pensare che ogni scalata sia epicamente esaltante e che tutte le emozioni arrivino a riempirci cuore e testa di felicità. Inutile illudersi che sia sempre domenica. E’ una giornata di merda quando decido di scalarti, Col du Galibier, ma su quel fazzoletto che è la tua cima ci arrivo comunque. Perché far scendere il mio culo dalla bici, anche in una giornata negativa, è davvero un’impresa. E neppure tu ci sei riuscito.
Quando finisce il Tour de France comincia l’estate. Si diceva così dalle mie parti. Ci si addentra nell’inizio dell’agosto arroventato, dopo aver visto un Giro che ogni tanto mostra (addirittura) la neve sulle sue cime più aspre, e ci si spoglia progressivamente fino a vestire quei vestiti leggeri, inconsistenti, guardando il Tour.

In autunno si chiude con il Lombardia, le foglie morte, gli scivoloni sull’asfalto bagnato.
Anche le stagioni sportive è riuscito a sconvolgere questo 2020, un Lombardia nell’arroventato Ferragosto Italiano, un tour che si apre a fine estate e vede le prime foglie cadere, un Giro che ci aspetta nel rigido ottobre.

E il Tour che si chiude, seguito ad una settimana dal Mondiale in Italia, è un tour che dopo una maglia gialla imperante e onnipresente, ribalta le sue sorti e quelle dei suoi protagonisti, in una giornata, la penultima, quella della crono scalata. Si parla tanto di questi eroi in bicicletta, ma dentro di me, in fondo, ho sempre pensato che una gara a tappe abbia una anima sua, indipendente, un suo volere, braccia e gambe su strade e ponti, la testa sui grandi passi.

Accadde anche tanti anni fa, il ribaltone intendo, su un pezzo di quella mente della Grande Boucle che porta il nome di Col du Galibier. Accadde che un uomo, un pirata, dicevano, decise che era tempo, per lui, di alzarsi sui pedali e volare sul quel “colle” che da allora è rimasto suo, suo tanto da portarlo a Parigi con il giallo cucito addosso.

Non è di giallo che mi vesto oggi, Galibier, per salire da te, ma di umiltà. Perché è da quando mi hanno cancellato quella gara, quella a cui tenevo tanto, sul tuo passo gemello, non lontano da qui, che mi è crollata addosso, come una brutta valanga, tutta la difficoltà di questo anno maledetto. Un’amica che non c’è più, il mio mondo lavorativo che un po’ s’è perso e un po’ arranca, quei giorni senza aria, natura e montagna che hanno tagliato lentamente i lacci stretti delle mie sensazioni più forti.

E’ da qualche giorno che il mio fiato si è mozzato e non aiuta, su questa tua salita, già un po’ in altura. Non c’è nulla della baldanza con cui ho sfidato la prima volta il tuo imprevedibile fratello, l’Izoard, so che la strada è lunga e io sono chiaramente in conserva.
Per arrivare a te bisogna rendere omaggio al Lautaret, ma in fondo sei tutto uno, vero? Il tuo fratellino, quello che, fedele compagno, si accuccia per farti “scaletta” come nei vecchi giochi di bambina, altro non è che l’antipasto alla tua cima.

Silenzio. L’assenza (di auto) viva come una presenza. E’ bello salire così. Solo ciclisti, solo pedalatori. C’è chi va più forte e mi supera in un amen. Sorrido. C’è chi arranca più di me e salutando e superando oggi quasi neanche mi volto a guardare. Non è giornata, già lo so, ma mica scendo da questa bici, sia chiaro.
Dopo il cartello del Lautaret e la curva che porta su, su, sulla tua cima, mi volto a guardare il rifugio di fianco alla galleria. Anche la vista del paesaggio concorre a mozzare il fiato e accelera il battito, a tagliare le gambe ci pensa la pendenza.

Si vede che son passati di qui quelli che pedalano davvero, solo un anno fa. I tuoi tatuaggi parlano di tifo francese. Pinot il nome più gettonato, ma anche Alaphilippe. Uno di quelli che quest’anno, anche se per poco, la indosserà la maglia gialla, uno di quelli che ancora fan sognare il ciclista del sofà, quello che le imprese le ama coraggiose, tanti coglioni e poco calcolo, come si diceva una volta. Uno che, lo sappiamo, meriterebbe di essere un campione del mondo.
E scusami se son scurrile, Galibier, e non mi esprimo in francese, ma qui le gambe bruciano e la testa va in giostra e io te l’ho detto, questa mattina, che dopo tutto quel dislivello quest’estate, per quella gara che non c’è stata, adesso è come se non ne avessi più, di gambe e di testa.

Sono salita così in alto, ho accumulato salite, per poi cadere così precipitosamente in basso, trascinata dalla mia (assenza di) motivazione e dalla delusione, che ha riempito i miei muscoli peggio dell’acido lattico dopo 180 km e 3500 mt di dislivello positivo.
Mai come oggi penso di girare questa bici e lasciarmi andare in discesa e mai come oggi non lo farei mai. Perché se le delusioni sono inevitabili, almeno lasciamo che arrivino da fuori, non diventiamo la delusione di noi stessi.

Gli ultimi tornanti si impegnano per darmi del filo da torcere, sono sempre più curva e sempre più incazzata, per il covid, per il 2020, per questa vita che non va come vorrei, per non parlare di me stessa, che non vado un cazzo.
L’hai mai provata quella rabbia lì, Galibier? Quella frustrazione che parla al cervello incessantemente? Che racconta di fallimenti, del non sentirsi abbastanza, del rincorrere qualcosa che non arriva, del non sentirsi per nulla invincibili? No, io non credo tu sappia cosa vuol dire, perché in fondo tu te ne stai lì, ad attendere, a decidere, a guardare.

Ma ci arrivo su, sulla tua cima. Su quel fazzoletto di terra con solo un grande cartello, spazzato dal vento e troppo affollato. E mi accorgo che no, non ti ho amato, non solo non l’ho fatto come ho adorato l’Izoard, ma che ho riversato su di te il mio momento no.

E tu sarai sempre un po’ il colle di un riscatto, di un piccolo inferno personale, e forse tornerò qui, con un altro sorriso, meno amaro, per scalarti ancora e ancora e scoprire davvero quanto sei bello, Galibier.

Materiali: Divisa Maratona delle Dolomiti / Bici Aero 18 by Telai Losa / Casco Network e occhiali Flywheel by Smith/ Sella Watt by Selle Italia/ Nutrition by Named Sport / Scarpe by Boa Fit System
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Un pensiero su “Ferocemente sul Col du Galibier”