Questa volta mi guida più la sfida sportiva che i ricordi, la fatica e la necessità di mettere il dislivello nelle gambe che l’emozionante viaggio introspettivo. Eppure quando mi trovo sulla lunga e stretta via che si inerpica verso la cima, il mio darti del tuo, caro Gavia, sembra quasi naturale (Passo Gavia da Ponte di Legno)
La prima volta quasi un anno fa. Per sfida. Per divertimento. Perché dopo l’Izoard ogni rampa del garage che si rispetti mi attraeva come una calamita. Eri stato, caro Gavia, a quel tempo, scalato con un po’ di sano agonismo, quello che anche a me prende, ogni tanto, quel poco di stress da prestazione. Sento un pizzico in più di fastidio, quando non salgo come vorrei, e sottraggo un grammo di emozione.

Un anno dopo. Doppietta Izoard- Gavia. A pochi giorni di distanza. Sembra che mi piaccia fare il bis senza l’applauso.
Dopo l’autostrada della cima francese, i suoi spazi aperti, le sue lunghe gambe tatuate, il suo petto ampio dalle rocce chiaroscure, essere qui, su questo stradino (sì una stradetta sembri Gavia), con boschetto annesso e poi deserto abbinato, pare quasi una presa in giro.

Ci voleva Torriani a sorvolare la Val Camonica per decidere che tu, laggiù, che altro non eri che poco più che un sentiero di montagna, potevi essere inserito nel calendario della corsa rosa. Serviva il patron del Giro per inventarsi una strada dove passavano solo muli, per immaginare uomini al dorso di un altro genere di cavalcatura… la bicicletta.

Arrivare a S. Apollonia è ancora piacevole e al piccolo paesello c’è un ristorante sul torrente dove vorrei fermarmi a mangiare, ma quando si entra nel Parco Naturale dello Stelvio, dopo poche curve, la tua pendenza diventa crudele. Un cartello avverte del restringimento della tua strada e della mancanza delle barriere di sicurezza, ma in realtà dovrebbe recitare Dante “lasciate ogni speranza, o voi che entrate (salite in bici, in questo caso)”. Si arriva al 16% e sembra davvero di dover abbandonare polmoni e cuore sul ciglio.

Poi diventi più clemente, mio Gavia.
E mentre nel buio della galleria la tua salita fa meno paura, mi sento come se stessi pedalando in un’altra dimensione e in un altro tempo. E poi esco e mi rendo conto di tutto. Quella non è una strada di un grande passo alpino, quella non è la maestosità dell’ascesa al Gottardo, o al Furka, e non ricorda neppure lo Stelvio. Quella lì davanti a me è davvero poco più di una mulattiera prestata al grande ciclismo. Eppure è con quella mulattiera, piena di neve, che hai fatto la tua storia, maledetto benedetto Gavia.

Non c’è la neve di quel 1960 né tantomeno quella tormenta del 1988 dove neppure la Rai riuscì a trasmettere in diretta la salita sulla tua cima, ma io comunque sento le gambe in fiamme quando sul display appare il 16% di pendenza e la bici sembra altro da me.

Sono quelli i momenti in cui la fatica supera la volontà, quelli in cui in un attimo potresti poggiare il piede in terra, girare la bici e lasciarti andare in discesa, quelli in cui solo una sorta di oblio dei pensieri e della mente ti permette di andare avanti.

E nonostante tutto… mamma mia quanto sto bene quando attacco un altro passo… uno nuovo, l’ennesimo, o anche sempre lo stesso. Forse sono fatta solo per quello. Per la fatica, quella dolente e lunga, intensa, che sembra infinita. Giù piegata, dolorante, fa male tutto, anche la testa che pensa ossessivamente “quando finisce?”

Fa male un po’ anche il cuore, dentro, per quella solitudine vera, sulle due ruote.
La velocità della pianura, senza la strada che si impenna, niente, non mi emoziona.
Fa male andare in salita, eppure, fa così bene. Davvero. Una feroce felicità.
Grazie maledetto, benedetto, Gavia.

Materiali: Divisa Monza Marathon Team Triathlon by Boosny / Bici Aero 18 by Telai Losa / Casco Spectrum e occhiali Tralyx Slim by Rudy Project/ Sella Watt by Selle Italia/ Nutrition by Named Sport / Scarpe by Boa Fit System
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