Lui che amava il Tour più di ogni altra corsa, anche se diceva che il Giro è stato il suo primo amore. Lui che aveva una “voce inconfondibile”, uno stile come nessuno quando scriveva di ciclismo, ecco, proprio lui, cosa avrebbe detto delle competizioni virtuali, di un Giro che non c’è se non su una traccia GPX, dove l’epica si narra guardando un monitor…
Il momento straordinario (nel senso del completamente fuori dall’usuale) che stiamo vivendo sta reso estremamente popolari non solo gli allenamenti virtuali, ma anche le competizioni virtuali. Tutte le piattaforme si stanno adeguando a tempo di record per fornire a professionisti e amatori distrazione e allenamento.
La stampa specializzata ne parla già da un po’, io stessa ho scritto post (più di uno) in merito esprimendo pregi, difetti, dubbi e perplessità. Ad ogni modo, nonostante tutto, sono settimane che partecipo più intensamente di prima a svariate competizioni su varie piattaforme.
Non mi interessa il lato agonistico (non che in genere sia la mia priorità 😂) ma l’idea dello stare insieme, dell’andare avanti… sia pure in qualche modo.

Negli ultimi giorni anche i principali quotidiani stanno parlando dell’esplosione di questo fenomeno. Dapprima il Corriere con la vicenda di Miranda Carfrae (per chi non lo sapesse tre volte campionessa del mondo di Ironman), che mentre gareggia al primo Ironman VR (distanza 70.3) riservato ai Pro, quando il marito, Tim O’Donnell (anche lui triathleta) inciampa per errore nel filo del rullo smart della gentil consorte, vanificandone i sogni di vittoria. Poco importa se Gramellini, chiaramente digiuno di ogni disciplina sportiva che presupponga l’utilizzo di due ruote e un cambio) dice che Miranda stava pedalando su una cyclette (poveri noi triatleti…)
Oggi nuovamente, il Corriere, riporta in prima pagina l’iniziativa promossa in collaborazione con Gazzetta, del primo Giro d’Italia Virtuale.
In un contesto anomalo, mi domando spesso cosa avrebbe potuto scrivere quel grandissimo giornalista appassionato di ciclismo, ma soprattutto di vita, che ci ha lasciati il primo giorno di primavera: Gianni Mura.
Non ho mai avuto la possibilità e l’onore di conoscerlo personalmente, però sono sempre stata avida divoratrice dei suoi scritti.
I suoi pezzi ti facevano annusare l’asfalto, percepire l’esaltazione dei tifosi, la maestosità dei luoghi attraversati, il profumo dei fiori a bordo strada, la fatica dei corridori, la gioia dei vincitori ed il calvario dei battuti, la tensione dei muscoli nei massaggi a fine corsa, l’importanza di un ristoro provvidenziale o l’agonia per un rifornimento mancato, insomma ti facevano vivere la purezza e la bellezza di questo sport in tutti le sue pieghe, positive e negative.

Leggere un pezzo di Mura sul ciclismo è come viverlo, come esserci dentro: ogni parola un’emozione genuina pronta al consumo. Una pillola in grado di far appassionare anche i più grossi delatori di questo sport.
Chissà allora cosa avrebbe avuto da scrivere, questo grande maestro, delle corse virtuali, lui che come affermato anche nella copertina del libro che Repubblica ha pubblicato in questi giorni per celebrarlo, preferiva le chiacchiere da bar ai social network.
Purtroppo non lo so dire, anche se mi piacerebbe tanto saperlo, e non voglio neppure sbilanciarmi perché entrerei in un territorio che non mi appartiene. Qualcosa immagino, ma lo tengo per me.
Di una cosa sono sicura, elencandone pregi e difetti, sarebbe riuscito con la sua eleganza ed ironia a rendere più umana e vera anche una corsa virtuale.
Sarebbe riuscito a dare colore ed umanità anche alla “triste” figura di un’atleta sudato che pedala solo su un rullo tra quattro mura guardando un monitor.
In fondo è quello che dovremmo fare un po’ tutti quando la vita diventa un po’ troppo virtuale: cercarne i lati migliori avendo la capacità di ironizzare sugli altri, per farci trovare pronti alla vita vera.
Grazie Gianni Mura.
“Il ciclista gira il mondo (…). Gira il mondo, ma non lo vede, non può guardare né i paesaggi né i monumenti. Gira il mondo e mangia sempre le stesse cose. Vede solo lettini per il massaggio e camere d’albergo, che nel tempo si sono fatte più confortevoli. Ho visto Merckx e altri 80 corridori dormire nel liceo di Luchon su brandine stese nei corrodi, sei docce e sei wc per tutti, prendere o lasciare. Prendere, se non prendi non sei un ciclista e in più l’organizzatore ti sbatte a casa perché non si può rifiutare l’alloggio assegnato. E allora, perché oggi uno non sceglie il tennis, il golf, la pallavolo? “Per passione” rispondono i ciclisti. Passione ha la stessa radice di patire e patire è un po’ morire. Questo non spiega tutto, ma molte cose sì.”
Gianni Mura, tratto da “Da il Mondo di Gianni Mura” – Edizioni La Repubblica – 2020